La trappola della Cura: il dominio dei curanti
“L’aver cura si rivela così come una costituzione d’essere dell’Esserci”. Con questa frase fulminante, presente in Essere e Tempo, Heidegger sancisce quella che sarà la centralità discorsiva del sostantivo «cura». Questo termine oggi è diffusissimo, non solo in ambito filosofico. Per questo, merita attenzione. Il rimando medico è evidente: si cura ciò o chi è malato. Tra cura e malattia intercorre una relazione fondamentale. Se la cura è un atteggiamento essenziale dell’essere umano, altrettanto essenziale è la malattia che lo affligge. Pertanto, è lecito concludere che il discorso della cura sottintende un’antropologia pessimista. Senza un essere umano dolente di per sé, e non per accidente, il palliativo ricoprirebbe un ruolo di secondo piano. Qui è in campo una logica non dissimile da quella che presiede alla teoria del peccato originale: l’essere umano è dannato, dunque è necessaria la salvezza. Ci sono debitori e creditori. Curanti e curati. Tutti sono malati, in quanto umani, ma alcuni hanno il potere di realizzare la sanità di tutti. Non meno importante è la vocazione universale della cura: i curanti, per agire, devono occuparsi, almeno virtualmente, di chiunque e, per questo, si lasciano guidare da concetti generali. Tra peccatori e santi/peccatori si crea la stessa relazione imprescindibile che c’è tra cura e malattia, quindi, non è strano, che si stabiliscano rapporti di dipendenza. È in gioco, però, anche un altro elemento. A permettere la prosecuzione di un legame di questo genere è, infatti, la soddisfazione che l’atto del curare genera nel curante. Se il curato diventa sano attraverso il curante, quest’ultimo si percepisce come una causa ed è, dunque, appagato, compiaciuto, gaudente. Questo spiega perché egli spesso ami il «cattivo» più che il «buono»: sul primo può agire positivamente, sul secondo, no; il primo è la dimostrazione della causalità, il secondo è il testimone dell’inutilità della cura – o, meglio, del curante stesso. Non è un caso che il curante per eccellenza – al quale tutti i curanti si ispirano, anche i più laici -, cioè Gesù, raccolse i suoi discepoli anche, e soprattutto, tra i «cattivi». Ci sarebbe da chiedersi quanta soddisfazione abbia provato nel farlo, ma l’intervista, al momento, è impossibile. La condizione di fondamentale infermità, da cui sarebbero afflitti gli umani secondo i curanti, rappresenta una delle possibilità dell’istaurazione della gerarchia: il malato non può/vuole fare, dunque ad agire al posto suo è il curante. “L’aver cura può in certo modo sollevare l’altro dalla «cura» sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo posto”, così, lo stesso Heidegger, sempre in Essere e Tempo. In questa modalità, la cura è una forma di dominio, “anche se il predominio è tacito e dissimulato per chi lo subisce”. Dietro quella che appare come una figura dell’altruismo, si cela ancora una volta la volontà d’uso: “Questo aver cura, che solleva l’altro dalla «cura», condiziona largamente l’essere-assieme e riguarda per lo più il prendersi cura degli utilizzabili”.
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